A VENEZIA CHE MUORE

Questa citta'
inerte
Attiva solo
nel suo essere
magnetica
fornisce alibi
ai confini che
si snodano
fra l'accidia e
la contemplazione.

E' un "pajaro" che muore
nell'indifferenza
di un campo solitario
Lui che prima
offriva ali e ilarita'
al turista che non sa.

E' lo scoglio salmastro
a cui si aggrappa
la mia anima,
mollusco fra gli altri,
lambita dall'acqua di sempre
ma piu' opaca
di volta in volta
di onda in onda.

Familiare
come le vesti delle donne
ornate di fiori
che mi riportano
al buon senso di mia madre,
lo sguardo teso
al prossimo pasto da preparare.

Estranea
come gli animali
che sfuggono, di notte,
al piede umano
e percorrono vie a tutti
ignote.

Soffro per te
nella misura in cui t'amo
Non so come salvarti,
piccolo fiore di pietra
posato su acque inospitali
ed ammalianti.

Cantano le ninfe
un'ode
che non so dire
se alla tua bellezza
o alla tua agonia.

S'ode una campana
e poi altre ancora,
ma solo ti rallegra
il chiacchiericcio garrulo
della tua gente
che di te ha introiettato
la solarita' della pietra
non
la vischiosa tristezza
delle tue acque.

Io, per me,
ti offro entrambe,
la mia solarita'
e la mia tristezza.
Che si perdano nelle calli
che si disgreghino nel sale,
ad unirsi con le tue
ceneri cremate.

Luglio 2003
Poesia contenuta nella raccolta "Spiriti Liberi" curata dalla poetessa Virginia Donati

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