RIFLETTENDO (SU) REBECCA: dal romanzo alla celluloide


E' passato un po' di tempo da quando ho chiuso il romazo di Daphne du Maurier. Eppure il suo spirito infesta ancora i miei pensieri. Ho letto che tale effetto sia il fio che inevitabilmente paga chiunque entri in contatto con questa storia. Sembra che l'immagine di Rebecca de Winter, forse la morta più celebre della letteratura più recente, si insinui nella mente dei lettori e non l'abbandoni più.
Con il tempo ho capito che non è cosí. O meglio non è esattamente cosí. E sono andata a vedere come la cinematografia abbia trasposto le multisfaccettate psicologie dei protagonisti. Mi sono fermata ad Hitchcock, e una rapida occhiata ad altri lavori mi ha confermato che è meglio non approfondire. Del resto la complessitá del racconto della Du Maurier ne fa un lavoro leggibile sotto punti di vista completamente diversi, sicchè, come qualcuno ha giá osservato, Rebecca è stata considerato un romanzo d’amore, sí da relegarlo al genere cosiddetto “femminile” o “rosa”; un thriller dalle sottili dinamiche psicologiche; infine un romanzo gotico, il primo vero romanzo del genere apparso nel secolo ventesimo. Mi sbilancio nel dire che tale molteplicitá di interpretazioni contraddistingua solo menti dalla creativitá geniale e unica, scrittori o registi che siano. Le versioni cinematografiche risentono ognuna dei diversi strati interpretativi del romanzo, non ultimo un’imbarazzante, romantica edizione italiana confezionata come sceneggiato televisivo, e che si salva in corner solo per l’interpretazione di Mariangela Melato nelle vesti dell’inquietante Mrs Denvers.
Ma andiamo con ordine.
Rebecca, prima moglie di Max de Winter, data apparentemente per dispersa in mare e poi ritrovata esanime alla deriva, agita i pensieri e la vita quotidiana della seconda moglie di de Winter, una giovane - molto più giovane di lui - introversa, quasi insipida ragazza che per tutto il corso del romanzo rimane significativamente senza nome. De Winter la  conosce a Montecarlo mentre lavora come dama di compagnia per una ricca ed annoiata signora americana. Portata nella magnifica residenza del neo marito, Manderley, una magione che si staglia imponente su una delle coste della Cornovaglia, ella si trova suo malgrado a confrontarsi continuamente con chi l'ha preceduta, complice l'atteggiamento a lei ostile della governante, Mrs Denvers, la quale non fa nulla per celare la propria venerazione verso la defunta signora de Winter.
E a mano a mano che la storia scorre, emerge di colpo l'idea che in realtá Rebecca de Winter sia fra tutti il personaggio più limpido e coerente di tutta la storia.
L'imponente personalitá di Rebecca non ha crepe, non ha incertezze: è la solida personalitá della donna di mondo senza scrupoli, che riceve gli ospiti, organizza feste e sa come conquistare tutti "uomini, donne, animali", a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Sono tutti gli altri ad offrire ampi margini di ambiguitá: a partire dallo stesso Max de Winter, che si rivelerá a metá libro, fino alla tetra governante, che offre la spalla al viscido cugino di Rebecca; persino l'umile Frank, fedele amministratore di de Winter, offre chiaro scuri che non saranno mai del tutto illuminati dall'autrice: con un efficace stratagemma narrativo, du Maurier non chiarirá mai se e quanto Frank sappia della storia di Rebecca, facendo di lui uno strano ibrido di complicitá e devozione al di lá del bene e del male. La stessa figura "istituzionale" del colonnello Julian lascia intuire, ma non dispiega del tutto, i propri sospetti, velandoli dietro le formalitá di rito.
Fino a giungere a lei, e qui arriviamo al punto: la protagonista senza nome, l'Io narrante ed insicuro della storia. Lei, l'insipida, asociale giovane donna, che non sa giocare a tennis, nè a golf, nè andare in barca a vela, come si suppone una signora di rango sappia fare: proprio lei risulta il personaggio più ambiguo del romanzo. Lei che, dichiaratamente, si fa subito, senza scrupoli, complice silenziosa di un delitto, spegnendo senza remore, all'istante, qualsiasi scintilla di moralitá.
Non è Rebecca che infesta i pensieri dei lettori, i miei pensieri. Piuttosto è la sua antagonista senza nome a perseguitarci. E' la bislacca emancipazione di un Sè che si trova stretto fra la figura di un marito-padre e lo spettro ingombrante di un'altra donna.
Piuttosto in lei si riflette, come su uno specchio rotto e distorto, l'immagine della promiscua Rebecca de Winter, ed inevitabilmente anche quella di Mrs Denvers, alter ego malvagio ed oscuro della sua prima, adorata signora.
E l'immagine riflessa sullo specchio rotto si riflette a sua volta in noi, sollevando gli interrogativi più impronunciabili, degni dei "maestri del dubbio".
La versione di Hitchcock risulta straordinaria nel rendere le ambientazioni: memorabile su tutte la fedele riproduzione del sogno, che segna il celebre incipit ed in cui Manderley (un modellino realizzato negli studi californiani) rifulge di tutta la sua ombra inquietante e desolata “a desolate shell, soulless at last, unhaunted (...) a sepulchre, our fear and soffering lay buried in the ruins”. Non a caso, secondo ‘Alfie’, Manderley era la vera protagonista della storia. Un’altra scena memorabile si svolge negli interni, quando l’eroina senza nome si avventura nell’ala Ovest, insinuandosi nelle stanze di Rebecca: la “R” ricamata sulla biancheria rimanda un’eco che diventa a poco a poco un rimbombo, una spirale claustrofobica dove aleggia la figura di Mrs Denvers, guardiana e ambigua custode di un reliquario pagano.
Ma da metá film in poi succede l’irreparabile: Selznick, il produttore, vietó la trasposizione fedele della scena madre del romanzo, di cui non svelo i dettagli per rispetto verso chi non l’ha letto: l’amoralitá che la contraddistingueva rendeva l’opera impresentabile al grande pubblico, e cosí il “difetto” principale condiziona irriparabilmente il resto della narrazione Hitchcockiana, riconsegnando al silenzio della pagina scritta la genialitá con cui Du Maurier dispiega la doppiezza di ogni singolo personaggio. Gran peccato, gran peccato davvero: vien da chiedersi come Hitchcock, libero da vincoli, avrebbe proseguito il suo capolavoro. Lui, forse unico regista in grado di rendere con la macchina da presa la sottigliezza degli sguardi pensanti, degli imbarazzanti colpi di tosse, delle occhiate che dicono “io so che tu sai”.
L’altra pecca del film, al di lá delle forzature dettate dalla produzione, è la colonna sonora, che  a tratti risulta davvero eccessivamente melodrammatica e non sottolinea adeguatamente la tensione che si respira fra le pagine. Non che non mi suoni strano evidenziare una mancanza di tensione in un film di Hitchcock; ma forse ció rientra nei multistrati di cui sopra, e se da una parte egli è il maestro indiscusso della suspence, dall’altra rispetta l’immaginario hollywoodiano, in cui Laurence Olivier e la bravissima coprotagonista Joan Fontaine, anche nel quasi banale trailer dell’epoca, vengono presentati come icone classiche di un certo divismo.
Ci rimane impressa nella memoria l’immobilitá glaciale di Judith Anderson, una splendida Mrs Denvers che recita con gli occhi, e l’immagine del fuoco che divora il modellino di Manderley, escamotage che rientra fra le trovate del genialoide regista e in realtá una strizzatina d’occhio alla sensazionalitá di un certo cinema, poichè nel libro l’incendio finale, lungi dall’essere esplicitato, viene meramente intravisto all’orizzonte.
Infine non si puó non rileggere Rebecca (libro e film) e le sue sfumature alla luce della biografia dell’autrice (giá esaminata ampiamente) ma soprattutto dei primi racconti della Du Murier, usciti solo di recente dopo esser caduti nell’oblio: scritti quand’era appena ventenne, in essi i temi più scabrosi che vengono appena tinteggiati in maturitá hanno l’asciuttezza e la brutalitá dei ventanni, uniti alla consapevolezza di una mente giá adulta e disillusa. Qui giá un prototipo di Rebecca, una donna sadica e crudele, compare nel racconto più noto e sconcertante, The Doll. Per associazione si torna alle pagine del romanzo in questione  in cui un lieve accenno rivela i letti separati dei due sposi, in cui compaiono non poche allusioni al lesbismo, in cui la sessualitá acerba della protagonista, che si fa accarezzare dal marito-padre cosí come egli accarezzava il cane, non rivela mai – esplicitamente - i propri pensieri più reconditi. Non li rivela ma essi si fanno dire, in qualche modo, in un parossismo unico che fa emergere, a mio avviso, una delle autrici più interessanti del secolo scorso. Guardando al libro e al film retrospettivamente, alla luce dei suoi racconti di gioventù, vien da arrossire nel relegare Rebecca al genere “rosa”: le appassionate lettrici del genere, fuorviate dall’etichetta che certa critica appioppó al lavoro della Du Maurier (mi vien da dire solo per il motivo che fosse una donna), sicuramente aggrottarono più volte le ciglia di fronte a un inaspettato thriller psicologico dalle forti venature gotiche. Ed anch’esse furono possedute a lungo, loro malgrado, dal fantasma di Rebecca.
si veda anche    http://criticaimpura.wordpress.com/2011/12/29/riflettendo-su-rebecca-dalla-carta-alla-celluloide/

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