DALLA CARTA ALLA CELLULOIDE: Carrie Di Stephen King rivisto da Brian De Palma



“Whatever is fitted in any sort to excite the ideas of pain, and danger, that is to say, whatever is in any sort terrible, or is conversant about terrible objects, or operates in a manner analogous to terror is a source of the sublime; that is, it is productive of the strongest emotion which the mind is capable of feeling” Edmund Burke, Philosophical Enquiry into the origin of our ideas of the Sublime and Beautiful (1757)

Rivedere per la seconda volta “Carrie. Lo sguardo di Satana” di Brian de Palma, dopo aver finalmente letto il romanzo di Stephen King da cui è stato tratto, indubbiamente lo ha in prima battuta depotenziato. Perlomeno stavolta la mano di Carrie White che emerge da sottoterra per afferrare Sue Snell non mi ha perseguitato nel sonno, come la prima volta che vidi il film, anni fa. Anche perchè è uno dei dettagli che De Palma inventa di sana pianta. Giá, De Palma si diverte ad omettere, cambiare, aggiungere a suo piacimento; si mette pure a stravolgere il finale, dettaglio non del tutto indifferente. Eppure, eppure...è uno di quei registi la cui maestria è in grado di “rendere” una struttura narrativa e – ancora più notevole – la portata emotiva di un testo anche e nonostante ne cambi alcuni tratti salienti.  Non è un caso che King stesso non si sentí per nulla “tradito” ed anzi ha sempre considerato il lavoro di De Palma come una delle migliori, forse LA migliore trasposizione cinematografica tratta da un suo libro.
La trama è arcinota e non mi cimenteró nel riassumerla, mi soffermo piuttosto nell’analisi dei personaggi.
Quel che fa di “Carrie” un capolavoro letterario (e non solo di genere) è a mio avviso, prima di tutto e soprattutto, la profonda ambiguitá psicologica che anima i protagonisti, di cui forse Carrie è la più limpida ed in fondo la più perdonabile e giustificabile.
King dapprima dispiega egregiamente le contraddizioni che albergano nei singoli personaggi, come l’intricato atteggiamento di Sue Snell, compagna di scuola di Carrie, dapprima travolta piacevolmente e perversamente nell’ebbrezza dello scherzo crudele che lei e le sue compagne inscenano contro Carrie White nelle docce, dove la sommergono di tamponi ed assorbenti in seguito alla sua prima mestruazione. Poi, pentita, propone al suo ragazzo Tommy di invitare Carrie al ballo della scuola, in un atteggiamento che ondeggia spesso fra l’orgoglio della coscienza pulita, un pentimento sincero ed infine un sottile timore che il suo fidanzato si possa innamorare di Carrie. L’insegnante di educazione fisica, Miss Desjardin, oscilla fra il disgusto verso la figura di Carrie White e la sincera pena per la povera ragazza. Pur tuttavia lo schiaffo che le sottopone nella scena delle docce ed il piacere che ne deriva  sono autentici “ She hardly would have admitted the pleasure the act gave her”. Anche la schietta follia di Mrs White, la madre di Carrie, dispiega fino in fondo la contraddizione che sta alla base della sua nevrosi: la sua sessuofobia, esacerbata dal fanatismo religioso, nasconde in realtá una morbosa attrazione “I like it! I like it!” grida quasi sfogandosi quando rivela alla figlia l’episodio di violenza sessuale compiuto su di lei dal marito ubriaco.
Ma non è questa la novitá.
Tutta la migliore tradizione gotica, horror, etc etc è sempre stata contrassegnata dalle forze ambivalenti, dalle pulsioni contrastanti che si agitano nei territori più sotterranei della mente e dell’animo umano. Dalla “Carmilla” di Le Fanu ai romanzi della Radcliffe fino al classico dei classici, il “Dracula” di Bram Stoker, la dinamica attrazione-repulsione l’ha sempre fatta da padrona. La convivenza fra il senso dell’orribile e il senso di piacere hanno pure trovato una propria ratificazione filosofico-intellettuale nella dispiegazione che Edmund Burke dá del senso del Sublime, nella seconda metá del diciottesimo secolo.
In “Carrie” King fa un balzo più in lá. Nella scena finale, dove la protagonista scatena i propri poteri telecinetici uccidendo tutti e facendo saltare in aria la scuola, non è solo catarsi quella che il lettore vive - un processo analogo a quel che avveniva negli spettatori della tragedia greca –in una sorta di liberazione ma anche distanziamento da disturbanti forze oscure, bensí un salto ulteriore: il lettore esulta con Carrie. Viene trascinato emotivamente nella spirale di vendetta della protagonista, esperendo una sorta di “nekyia”[i] nei territori dell’indicibile, simpatizzando con pulsioni e sentimenti che a livello razionale ripudierebbe senza indugio.
E’ questo il climax che raggiunge Stephen King nel suo primo romanzo (in realtá il quarto, ma il primo pubblicato).
La forza e l’intensitá di questo processo emotivo è resa benissimo nel film di De Palma, complici anche una scelta di attori che fa gridare al miracolo, e di fronte alle variazioni rispetto al testo di King vien davvero da sospirare un bel “chissene...”
Tornando agli attori: un grande punto di forza del film sta nell’interpretazione delle due protagoniste principali, Sissy Spacek nel ruolo di Carrie e una straordinaria Piper Laurie nelle vesti di Margaret White. La duttilitá della Spacek rende al meglio l’idea di un’adolescente tutto sommato attraente e con una sua peculiare bellezza (cosa che emerge con prepotenza nel pre-finale e di cui la compagna Sue è consapevole giá da prima, tanto da indurla alla gelosia), ma con una certa predisposizione alla goffaggine e al nascondersi dietro un’immagine scialba e sciatta. I lineamenti spigolosi dell’attrice e la sua mimica suggeriscono in maniera esemplare l’idea di una “bellezza malata”, quasi perversa. Una curiositá: l’attrice aveva allora 27 anni. Di lei un altro grande regista, Robert Altman, disse che poteva interpretare qualsiasi etá con una duttilitá mai vista in altre attrici prima d’ora. Piper Laurie, dal canto suo, da del suo meglio in una delle scene più esteticheggianti del film e che tra l’altro si discostano maggiormente dal romanzo: la morte di Margaret White, sotto i colpi di lame attivate dalla telecinesi della figlia, viene spesso descritta come una “trasfigurazione”. In effetti qui l’attrice sembra rivestire i panni di un moderno San Sebastiano al femminile, in più i rantoli che la agitano ricordano palesemente i sospiri di un orgasmo e il suo sguardo finale sottolinea certo la sensazione: Margaret White muore in una sorta di estasi masochistica, fra le braccia di un piacere che aveva sempre rinnegato con furore imbracciando la Bibbia. La forza e la suggestione della scena fa perdonare a De Palma di non aver seguito con fedeltá la vera morte della signora White, il cui cuore viene nel libro fermato gradualmente dai poteri soprannaturali della figlia.
Da ultimo un’annotazione stilistica: la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo “Carrie” è che King stava facendo col suo romanzo quel che Stoker fece con “Dracula”. Quest’ultimo, uscito alla fine del diciannovesimo secolo, fu lo sviluppo più estremo di un genere non certo inventato dall’irlandese, ovvero il romanzo epistolare. Ma Stoker lo esasperó, facendo del suo romanzo un’insieme di corrispondenze, estratti da plausibili giornali dell’epoca, registrazioni fonografiche, diari di bordo navali, il tutto in un filo narrativo caratterizzato da salti temporali e descrizioni dello stesso evento sotto punti di vista diversi. La stessa cosa fa Stephen King ma in chiave moderna: “Carrie” non segue un filo narrativo fluido e consequenziale, è un’accozzaglia – per cosí dire – di interviste a testimoni, estratti da documenti riguardanti “il caso Carrie White” articoli presi da giornali locali, etc etc attraversata da salti temporali imprevedibili, come il memorabile episodio  riguardante l’infanzia di Carrie, omesso nel film, in cui compaiono per la prima volta, in maniera terrificante, i poteri soprannaturali della ragazza, attraverso una pioggia di pietre che la bimba fa cadere sulla propria casa. Nelle mani di uno scrittore meno talentuoso la cosa sarebbe risultata ridondante, manieristica, confusa. King invece riesce a tenere il lettore incollato alle pagine, rendendo appieno la veridicitá della storia.  “Carrie”, nell’esagerazione del contenuto, riesce ad essere verosimile grazie alla forma.
Amaro è quel che rimane nella bocca chiudendo il romanzo e la sensazione che rimane alla fine della lettura è ben simboleggiata dall’atmosfera che si respira nella cittá di Chamberlain – villaggio del Maine dove si svolge il tutto – dopo il tragico ballo di fine anno alla Ewin High School . Non era la stessa che si respirava dopo che un tornado aveva raso al suolo una cittá. Non si avvertiva lo stesso senso di ottimismo e determinazione che muovono gli uomini ad andare avanti dopo il disastro. “The kids are gone(...)The faces that you meet are full of dull hopelessness”.



[i] Discesa agli Inferi

Comments