estratto da "La stanza di Milady" - FOSCHIE
La fitta nebbia di Settembre raggelava le ossa.
Gli alberi avevano iniziato a perdere le foglie ed i tronchi, resi scuri
dalle continue rugiade e foschie della stagione, si andavano progressivamente
denudando dei propri gioiosi abiti color verde, giallo, rosso. L’odore pungente
delle foglie marcescenti, unito a quello della corteccia umida, giungeva
stranamente piacevole e melanconico al tempo stesso; un grigio velo uniforme si
librava sopra ogni prato, ogni cottage, ogni albero, cancellando qualsiasi traccia
di colore, come se tutte le colline avessero d’un tratto indossato un mantello
per fronteggiare l’inverno incipiente.
Una figura scura indugiava nella nebbia: un silenzioso, meditativo
essere umano, la cui presenza nessuno avrebbe notato se non per lo sbuffare del
cavallo al suo fianco.
Contemplava il profilo della sua casa, che si stagliava sulla cima della
collina: un’imponente divinitá vittoriosa contro i vapori delle foschie, che
vanamente tentavano di cancellare anch’essa.
Per un tempo considerevole proseguí nel contemplare i contorni ed ogni
singolo angolo della propria magione, finchè si ritrovó riluttante a tornarvi.
Quale sforzo era stato, esaudire il desiderio di isolamento e
preservazione del proprio dolore. Aveva cercato disperatamente un posto come
quello ed infine aveva scelto ed eletto Lastsight Hill come tana perfetta in
cui nascondersi dal mondo: ora iniziava a percepire che la sua scelta deliberata
si stava tramutando in un maleficio subìto, una trappola che aveva costruito
con le proprie mani e dalla quale poteva a stento scappare. Poteva solo
accettare con rassegnazione di dare corso agli eventi cosí come si svolgevano
dinanzi a lui.
Stava di fronte alla sua magione come un dannato sta di fronte alla
propria fossa: assolutamente incapace di accettare il fatto che la sua ora sia
arrivata, indulge e rimane in equilibrio sul limite della fossa, aspettando che
qualcosa succeda, qualcosa che cambi il corso delle cose.
Ma nulla sarebbe successo (...).
La foschia, una volta dolce rifugio, al quale egli affidava le proprie
segrete lacrime come gemme depositate in uno scrigno, si rivelava ora una
prigione, dalle sbarre eteree ancorché crudeli.
I rami scuri degli alberi si stagliavano desolati nell’aria, facendosi
spazio a fatica attraverso la nebbia, come se la stessero perforando pur di
potersi estendere verso il cielo; in lontananza si udiva l’abbaiare e l’ululare
dei cani, un gemito sempre più crescente: un canto struggente pieno di
nostalgia, come un ultimo saluto alla vivacitá dell’estate.
Il canto era talmente angosciante che il cavallo ne fu in qualche modo
disturbato ed inizió a scrollare la testa, agitando selvaggiamente la criniera.
Ma non era stato l’abbaiare dei cani, nè il loro ululato a risvegliare
la sua intuizione di bestia.
Qualcosa di più sottile, qualcosa di non immediatamente udibile era lí
con loro nella brughiera
Comments
Post a Comment